Facebook ha annunciato di aver sospeso la società Cambridge Analytica poiché ritenuta colpevole di aver violato le norme del social network relative alla raccolta e detenzione di informazioni degli utenti.
Che Facebook raccolga i dati degli utenti è un segreto di pulcinella. Solo chi è in buona fede o ignora i meccanismi di base del web non poteva saperlo. E a farlo non è solo Facebook: qualunque nostro movimento in rete è tracciabile, tracciato, controllato e sorvegliato h24.
È poi ipocrita gridare allo scandalo nel 2018, quando alla presidenza USA c’è Donald Trump e in Italia i 5 Stelle. Chi è stato il primo ad usare in maniera massiccia e sistematica i dati degli utenti per targettizzare i propri contenuti? Non Putin, non Trump, non Le Pen ma – udite udite – Barack Obama.
Oggi Cambridge Analytica ha affinato la tecnica e l’ha adattata al nuovo contesto fatto di fake news, post-verità e crisi di autorevolezza del giornalismo. Il punto non è il microtargeting, che è la naturale evoluzione del marketing politico-elettorale. Il punto è che imprese private (da Facebook a Google, per capirci) sanno tutto di noi. Anzi: sanno più di noi di quanto non ne sappiamo noi stessi.
E come questa conoscenza può essere usata “per noi”, allo stesso modo può essere usata “contro di noi”. Per influenzare i nostri comportamenti, le nostre decisioni, le nostre informazioni e le nostre conoscenze. Per definire la nostra visione del mondo e rafforzarla. Per radicalizzare le nostre posizioni e impedirci di vedere oltre il nostro giardino. Per agire sui nostri istinti e le nostre paure più profonde.
In poche parole: per renderci delle bestie mansuete e addomesticate, prevedibili.
In realtà, si tratta di una vicenda che risale al 2015, quando Facebook ha scoperto che durante l’anno precedente il professor Aleksandr Kogan dell’University of Cambridge ha creato un’app chiamata “thisisyourdigitallife“, la quale proponeva di prevedere aspetti della personalità dell’utente. Secondo quanto indicato da Facebook, circa 270 mila persone hanno scaricato l’app e hanno effettuato il login tramite il meccanismo Facebook Login, permettendo così l’accesso a varie informazioni contenute nel profilo personale come la città di residenza, i contenuti a cui è stato posto un “mi piace” e svariate altre informazioni legate ai profili presenti nella friend list (e che avevano le loro impostazioni di privacy configurate di conseguenza).
L’applicazione era stata presentata a Facebook e ai suoi utenti come uno strumento per ricerche psicologiche la cui raccolta dati sarebbe servita per fini esclusivamente accademici, una sorta di test che prometteva di rivelare alcuni lati della personalità, uno di quei giochi che fanno impazzire gli utenti sui social.
L’amministratore delegato di Cambridge Analytica, Alexander Nix, prova a difendersi: “Abbiamo cancellato i dati Facebook quando siamo stati avvertiti di una possibile violazione delle regole del social media“, assicura. Nella sostanza, cambia poco.
Tuttavia, non si può parlare di “dati rubati” e non vi è stata alcuna “violazione di sicurezza” come le prime voci di corridoio iniziali hanno supposto. Si tratta di dati raccolti in maniera legittima in quanto gli utenti hanno dato il loro consenso, usati però in seguito in maniera impropria in quanto condivisi con terze parti senza che vi fosse autorizzazione esplicita e in contrasto con le norme di Facebook.
Quando un utente effettua un log-in ad un’app o servizio usando l’account Facebook e il meccanismo del Facebook Login, lo sviluppatotre di norma chiede l’accesso alle informazioni che sono in possesso del social network. A volte si tratta solamente nome e email, altre volte la localizzazione geografica e altre volte (ma questo solo fino al 2015, quando Facebook ha cambiato le proprie regole) le informazioni degli amici. Facebook afferma che le sue norme specificano in maniera chiara che gli sviluppatori non possono condividere con terze parti le informazioni che raccolgono, tramite Facebook, con le loro app.
Ed è proprio questo il problema chiave della vicenda con Kogan e Cambridge Analytica. Perché è sempre più vero che chi controlla l’informazione controlla l’uomo. Le implicazioni di questo data breach sono enormi: politiche, filosofiche, etiche prima ancora che giuridiche.
Dobbiamo capire se vogliamo essere noi i padroni del progresso o se, al contrario, vogliamo che sia il progresso ad essere il nostro padrone.