Nel cuore di una madre dopo un aborto spontaneo.
Prima di condividere questa storia abbiamo esitato parecchio. Forse perché è difficile. Forse perché è di natura molto personale. Ma è una storia che conta. Conta per ogni donna che abbia perso una vita dentro di sé, che abbia perso la promessa di un bimbo prezioso fra le sue braccia, che abbia avvertito di doversene restare in silenzio. Perché certo non parliamo molto di cose come queste.
Ma dovremmo.
Oggi sono incinta di un bebè sano e scalciante. Il suo battito è forte, le sue funzioni vitali sono perfette, e lei sta crescendo e si sta sviluppando splendidamente come ogni genitore potrebbe sperare.
Ma non è così che è andata col mio ultimo bimbo, il mio bimbo delle dimensioni di un chicco di riso, che si stava appena iniziando a formare.
Ero arrivata a cinque settimane.
A svegliarmi, quel mattino presto, fu un dolore che avvertivo, come acqua che iniziava a riscaldarsi. Si diffuse presto all’addome, come se il fuoco l’avesse mandata in ebollizione. Mia figlia di due anni dormiva al mio fianco, coi suoi capelli biondi, respirava piano. Mio marito dormiva serenamente di fianco a lei.
Sapevo che avrei dovuto andarmene in quel momento, prima che entrambi aprissero gli occhi, prima che mia figlia potesse aggrapparsi a me, insistendo per accompagnarmi.
Eravamo ospiti dei miei suoceri per il fine settimana, dormivamo nella vecchia fattoria bianca, costruita dalle mani della loro famiglia. Scivolai via dal letto e me ne restai lì al buio, dirigendomi a tentoni verso il bagno, con quella vasca da bagno e lavandino color Tiffany, e lo specchio antico appeso al muro. Sapere che generazioni e generazioni della sua famiglia erano passate da quella casa mi consolava. Mi faceva sentire meno sola, nonostante il fatto che in quel momento tutti stessero dormendo.
Svegliai mio marito. Non ci scambiammo parole, solo lacrime.
Provammo a dormire, stringevo mia figlia, baciavo le sue tiepide gote, odoravo i suoi capelli soffici.
Quando tornammo a casa, quel giorno, era quasi il tramonto. Fummo accolti da una torta senza glassa sul bancone della cucina. Nel caos dei bagagli era stata dimenticata. Dopo cena la ricoprii di glassa, e lasciai che mia figlia vi spargesse della granella colorata.
La chiamai la torta dell’amore della mia famiglia, e dissi che la stavamo mangiando perché eravamo una famiglia. Perché noi eravamo qualcosa da festeggiare. Perché la vita era qualcosa da festeggiare.
E fra me e me, rivolgendomi al bambino che non sarebbe mai nato, pensai: sto festeggiando anche te.
Perché tu conti. Conterai sempre.
Traduzione di Stefano Pitrelli